La nostra dieta è amica del clima?

dièta1 s. f. [dal lat. diaeta, gr. δίαιτα «modo di vivere»]. – 1. Nell’antica medicina greca, il complesso delle norme di vita (alimentazione, attività fisica, riposo, ecc.) atte a mantenere lo stato di salute; oggi, con sign. più limitato, alimentazione quantitativamente e qualitativamente definita, rivolta a conseguire scopi terapeutici o preventivi (….)

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Cosa scegliamo tra un piatto di pasta o un bel risotto? Per secondo meglio pollo o vitello? Attenzione però, non stiamo mettendo sulla bilancia solo carboidrati e proteine.

Quando parliamo di dieta, il nostro primo pensiero va alla salute. Ed è sacrosanto. È la prima cosa. È giusto costruire innanzitutto un piano alimentare che ci sfami, che sia bilanciato, e che consideri la giusta assunzione dei nutrienti che ci mantiene in salute. Ma poi c’è anche altro. Per esempio, abbiamo mai considerato anche l’impatto oggettivo delle nostre abitudini alimentari sull’ambiente?

In questi giorni, una lettura ci ha aiutato in questo senso. È “La dieta amica del clima. Una piccola rivoluzione collettiva nella lista della spesa”, edito da Altreconomia.

Già il primo dato presentato dagli autori Giuliano Rancilio e Davide Gibin fa una certa impressione: la produzione di cibo è responsabile di un terzo delle emissioni globali che alterano il clima. E quindi? Cosa possiamo fare noi a partire dalla composizione del nostro piatto? Come si misura l’impronta ambientale dei nostri pasti? Rispetto al consumo di suolo, per esempio. Oppure allo spreco di acqua.

Ma soprattutto, a noi interessa saperlo? E se sì, quanto sono importanti queste informazioni nel momento in cui facciamo la spesa? (Attenzione spoiler: sì, ci dovrebbe interessare saperlo, e anche molto!)

In quelle pagine ci sono delle vere e proprie classifiche. Dei “food ranking” che analizzano le pietanze non solo in base all’apporto energetico e di nutrienti ma soprattutto in relazione all’impronta di carbonio che emettono nel corso della propria vita. Cioè lungo quella catena che parte dall’uso del suolo o dell’acqua per agricoltura, pesca o allevamento e poi continua con i processi di trasformazione, trasporto, imballaggio e infine distribuzione. Per esempio, a parità di apporto di proteine, scegliere tra le sardine e il pesce spada fa tutta la differenza del mondo.Così, per dire.

È illuminante leggere quelle classifiche, e non perché questo sia un tema nuovo. È risaputo infatti che la coscienza ecologica si costruisca anche a tavola ma è raro imbattersi in questo tipo di misurazioni. Chissà se nel futuro potrà succedere che le nostre diete non siano costruite solo sulla base delle dosi giornaliere consigliate per equilibrare le assunzioni dei nutrienti, ma che terranno conto anche dei livelli di impronta ecologica di ogni singola pietanza.

Per il momento, al di là dell’ennesima categorizzazione (e di cui probabilmente anche noi non ne sentivamo la necessità), definirsi “Climatariani” (nel 2015 il New York Times lo ha inserito nella lista delle nuove parole legate al cibo) dà dignità a scelte alimentari che possono fronteggiare subito la sfida climatica. Senza estremismi, e senza stravolgere usanze, abitudini e cultura di un luogo, prediligono frutta e verdura di stagione, proteine perlopiù vegetali, uso parsimonioso della carne….

Perché fa bene agli uomini e all’ambiente, e fa guardare con speranza al futuro della Terra.

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